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Rovereto, 17 giugno 2003 Leggo su Il Trentino di oggi l’ennesima lamentazione del Presidente degli Industriali Pedri, a proposito di una mancata cultura imprenditoriale nella nostra Provincia. Ognuno ovviamente fa il proprio mestiere e chiede sostegno per i propri associati – da questo punto di vista Assindustria non è differente da qualsiasi altro sindacato -, tuttavia non pare accettabile l’accusa di scarsa cultura di impresa rivolta ai trentini in termini così generici, anche a fronte della situazione sociale ed economica di questa terra. Non si capisce, peraltro, chi, se non gli stessi imprenditori, dovrebbero contribuire in modo determinante al cambio di mentalità invocato. Chi, se non loro, dovrebbe riflettere anche sulle ragioni di una certa diffidenza che verso il ceto imprenditoriale si registra in molti settori della società trentina. Si è scritto di “invidia”, ma ritengo si tratti di un’analisi alquanto superficiale (essendo l’invidia un vizio capitale, credo sia equamente distribuita su tutto il pianeta…). Le ragioni mi sembrano altre (senza la pretesa di essere esaustivo). Il Trentino è stato vittima di imprenditori senza scrupoli, privi di qualsiasi cultura di impresa, i quali – è storia degli ultimi trent’anni di industrializzazione del Trentino – a decine si sono gettati famelici sui contributi, in genere a fondo perduto o quasi, erogati dalla Provincia per sostenere l’industrializzazione anche di aree assolutamente non vocate –, imprenditori che quando sono finiti i soldi pubblici sono spariti lasciando sul lastrico decine e decine di dipendenti illusi irresponsabilmente. Per non parlare del capitolo delle fabbriche decotte, spremute come limoni, - è storia degli anni ’80 e ‘90 - con costi ambientali e sociali enormi che sono stati, nel tempo, scaricati solo ed esclusivamente su cittadini. In questi giorni la Provincia ha approvato il piano di risanamento delle aree inquinate: un lungo elenco di siti che testimoniano quanta poca o nulla attenzione una intera classe imprenditoriale avvia dimostrato nei confronti della nostra principale risorsa – l’ambiente – di cui oltretutto beneficiamo nel corso della nostra vita, ma che, dal punto di vista etico, dovremmo farci carico di consegnare vivibile anche alle generazioni future. La questione è complessa, non affrontabile nel breve spazio di una lettera, e mi rendo perfettamente conto che non si può fare di ogni erba un fascio. Il tessuto industriale trentino è molto cambiato rispetto agli anni ’70 e ‘80, e non credo che il merito vada ascritto solo agli industriali. La politica ha fatto, e come, la sua parte. Chi ha pagato i costi sociali – attraverso l’ammortizzatore delle assunzioni pubbliche o dei lavori socialmente utili – provocati dalla ristrutturazione industriale e dalla deindustrializzazione (perché si preferiva investire altrove, all’est, dove non si pagano le tasse, non si va troppo per il sottile con i diritti dei lavoratori, ecc.) ? Chi ha sostenuto la ricerca con ingenti risorse, dotando il Trentino di una Università assai affermata? Certamente non gli imprenditori. Pedri afferma che vi sono troppi dipendenti pubblici: dica quanti ne assorbirebbe oggi l’industria trentina, a quali condizioni e con quali garanzie di stabilità e certezza di reddito nel tempo (e lo dica, magari, guardando in faccia chi è stato espulso dal privato negli ultimi vent’anni!), altrimenti fa solo affermazioni demagogiche e, soprattutto inconsistenti. Certo si può riformare tutto, anche il mercato del lavoro, ma non mettendo in discussione solo ed esclusivamente i diritti di una parte. Non sono accettabili affermazioni trionfalistiche se si dimenticano le proprie responsabilità come “ceto imprenditoriale”. Forse qualche imprenditore ha già metabolizzato disastri industriali (se eufemisticamente vogliamo definirli così) come la strage di Stava, o la lunga impressionante serie di persone morte per silicosi, asbestosi, saturnismo e mille altre patologie che hanno una causa ascrivibile al modo disinvolto in cui sono state gestite talune fabbriche, “quando in Trentino c’era la grande industria”. Un po’ meno sicumera non guasterebbe, soprattutto quando si pretende di impartire lezioni. Se loro hanno dimenticato, certamente non ha dimenticato la gente. Etica e senso di responsabilità vorrebbero che anche gli industriali si facessero carico di qualche cosa di più che non il proprio esclusivo tornaconto (sempre Pedri, tempo fa aveva affermato sui giornali, a proposito di infrastrutture da realizzare, “Alla fine ciò che decide è il profitto”). Quanto infine a qualche loro ricetta semplicistica sbandierata di questi tempi (dalla assoluta flessibilità alla progressiva erosione dei diritti conquistati dai lavoratori), forse farebbero bene a riflettere a fondo sulle inevitabili conseguenze sociali di certe riforme a buon mercato. La buona salute delle imprese di oggi è frutto anche di una relativa pace sociale durata più di un decennio e fondata proprio su quelle regole che oggi irresponsabilmente si vorrebbe mettere in discussione agitando lo spauracchi “altrimenti andiamo in Cina o nei paesi dell’est”. Se poi il modello di sviluppo per il Trentino che ha in mente Assindustria locale è quello del vicino Veneto, ci vuole poco a dire “no, grazie!” ed ad essere certi di non doversene pentire fra qualche anno. Basta chiederlo ai diretti interessati. Pino Finocchiaro
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