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Trento, 12 agosto 2003 Abbiamo letto e riletto l’intervento dell’on. Gianni Kessler pubblicato domenica 27 luglio 2003 “Mobilitati per Sofri, ma a Giampaolo chi ci pensa?”. Alla fine di ogni rilettura la domanda era sempre la stessa: che c’entra Giampaolo con Sofri. Dietro ad ogni condanna – anche quella per il delitto più efferato, figuriamoci dietro a quelle per un furto di polli – ci sono storie e vicende umane dolorose: devianza giovanile, miseria materiale, disperazione ed emarginazione, follia. E molte di queste detenzioni sono ingiuste, perché inutili, sia per i detenuti sia per le vittime che, nel caso di danni materiali subiti, come il furto, raramente ottengono alcun risarcimento. Il nostro sistema giudiziario e penale è ingiustamente afflittivo e funziona molto male. E non funziona nemmeno come deterrente, considerato che il 90% dei reati commessi non è di fatto perseguito. Ma tutto questo – e la storia di Giampaolo raccontata dall’on. Kessler ha propriamente a che fare con questo sistema – ha ben poco a che vedere con “il caso Sofri”. Abbiamo seguito fin dalle prime battute la vicenda giudiziaria di Adriano Sofri, così come alcuni anni prima abbiamo seguito la vicenda di Enzo Tortora. Il “giusto processo” per Adriano Sofri è finito con la prima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (il terzo grado di giudizio, fra tutti quelli innumerevoli ai quali successivamente è stato sottoposto), che ha annullato le condanne comminate in primo e secondo grado. Dopo è iniziato “l’ingiusto processo”. Il processo Sofri è fatto di un tale mare di carte che per leggerle tutte occorrono mesi, ma la questione essenziale si riduce ad un solo punto: può una persona essere condannata per l’accusa di una sola persona (accusa dalla quale, in virtù del proprio pentimento costui, dichiarandosi correo, ricava un sensibile sconto di pena), senza alcun riscontro esterno alle accuse stesse. La Cassazione ha detto chiaramente di no. Alle accuse ci vogliono riscontri oggettivi, ma nemmeno nei processi a Sofri, succedutisi all’annullamento delle due prime condanne da parte della Cassazione, questi riscontri sono emersi, mentre sono apparse, macroscopiche, le contraddizioni dell’accusatore. Questa è a nostro parere la questione fondante di qualsiasi azione si voglia intraprendere per togliere Adriano Sofri di galera. Non perché sia diventato una brava persona: lo è sempre stato. Non perché sia un fine intellettuale e commentatore politico: lo era anche prima di entrare in carcere. La vicenda giudiziaria di Sofri è ormai storia: se ne è occupato, mirabilmente, proprio uno storico dei processi di inquisizione, Carlo Ginzburg nel volume “Il giudice e lo storico”, (Einaudi, 1991), delineando un inquietante parallelo fra i processi di inquisizione medievali ed il processo Sofri. Libro di cui suggeriamo la lettura all’on. Gianni Kessler. Queste – e solo queste – sono le ragioni per le quali riteniamo giusto dare la grazia a Sofri. Più che un atto di clemenza (anche se la grazia è tale), una sostanziale riparazione di un evidente “errore” giudiziario. Non v’è nulla di scandaloso se a chiedere la grazia – unico rimedio tecnico rimasto per riparare al torto – non è l’interessato che si ritiene innocente, ma varie centinaia di deputati e senatori, appartenenti a tutti gli schieramenti politici. Ciò va semmai a loro onore. Il Parlamento, da oltre trent’anni, in materia di giustizia e di diritto penale ha sfornato una serie impressionante di leggi “straordinarie” ed “emergenziali” (dal fermo di polizia degli anni ’70, alle leggi antiterrorismo ed antimafia, alla legislazione premiale per i pentiti) senza mai approvare una riforma della giustizia degna di questo nome (a parte la legge “Gozzini” e la riforma del codice di procedura penale – due riforme la cui demolizione è iniziata subito dopo la loro approvazione). Essi hanno compreso che, in attesa non tanto di “uscire dagli anni di piombo” (da cui per la verità siamo usciti da almeno quindici anni!), quanto di recuperare una “normalità giudiziaria”, è opportuno quantomeno far prevalere sulla “ragion di stato” il buonsenso politico e l’umanità. Emma Di Girolamo
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