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      Roma, 16 marzo 2011 
        «Ma questa riforma non È uno scandalo» 
        Marco Boato, ex relatore in commissione Bicamerale, sulla  riforma Alfano 
      dal settimanale Gli Altri, del 16 marzo 2011 
              Marco Boato, ex parlamentare dei Verdi non è semplicemente  un garantista doc: è uno dei pochi politici che, come si dice in questi casi,  ha i “titoli per parlare”. E stato tra i protagonisti più attivi della stagione  della Bicamerale, ai tempi del centrosinistra prodian-dalemiano, mestamente  naufragata dopo un anno e mezzo di lavori. Sotto il suo nome sono sorte le  famose “bozze” di riforma in tema della giustizia, anch’esse malamente  azzoppate per via di veti incrociati, prudenze o sollevazioni di categoria.  Dopo quattordici anni alcuni dei nodi affrontati in Bicamerale “rivivono” – con  le debite differenze, in alcuni casi stravolti nel testo del governo varato dal  consiglio dei ministri. 
      Abbiamo chiesto a Boato di leggere in chiave tecnica i punti  cardine della riforma Alfano. 
              1.  SEPARAZIONE DELLE CARRIERE 
  È  un tema che si discute da decenni. Non c’è dubbio che siamo in presenza di un  contesto politico inquinato che rende difficile se non impossibile il  confronto, ma bisogna pur dire che il testo presentato da Alfano non fa che  riprendere in modo più radicale un’istanza avanzata fin dai tempi  dell’Assemblea Costituente. Piero Calamandrei, ad esempio, già nel 1947 era  fortemente a favore del- la separazione delle carriere. Prevalse  un’impostazione più equilibrata, ma nello spirito originario della Carta si può  leggere la distinzione implicita tra giudice e pubblico ministero. Con la  Bicamerale del 1997 era stata avanzata una proposta morbida di revisione, che  prevedesse la separazione netta delle funzioni tra magistratura requirente e  giudicante. Era il tentativo di mediare fra posizioni “conservatrici” e  “riformiste”. Oggi si compie certamente un passo più audace. Ma va detto che  questo principio è logica conseguenza della riformulazione dell’articolo 111  relativo al cosiddetto “giusto processo”. Nel momento in cui si stabilisce il  contraddittorio fra le parti davanti a un giudice terzo e imparziale, non può  che derivarne la distinzione limpida fra attività dei pubblici ministeri e  attività dei giudici». 
              2.  DOPPIO CSM 
  «Anche  questo tema fu affrontato in sede di Assemblea Costituente nel 1945 e fin da  allora c’era chi propendeva per un rapporto paritario fra togati e laici  all’interno del Consiglio superiore della magistratura. Alla fine prevalse la  proporzione attuale: due terzi dei membri appartenenti alla magistratura e da  essa eletti, un terzo di professori e avvocati con quindici anni di servizio  nominati dal Parlamento. Nella bozza della Bicamerale questo rapporto passava a  tre quinti-due quinti, recependo la volontà di riequilibrare i numeri a favore  dei laici di nomina parlamentare. L’associazione dei magistrati alzò le  barricate di fronte a questa ipotesi di modifica, ritenuta “eversiva”, e forse  oggi rimpiangerà di averlo fatto. Complessivamente non vedo scandaloso il  principio di corresponsabilità laici-togati nella gestione del Csm e  onestamente non intravedo pericoli di ingerenza politica: nel Csm della  magistratura giudicante farà parte di diritto il primo presidente della  Cassazione, in quello della magistratura requirente il procuratore generale  della Cassazione: quindi questa parità non è perfetta, ci sarà sempre una  piccola maggioranza dei membri togati sui laici. Inoltre reputo positivo, e  fonte di ulteriore garanzia, il fatto che entrambi i Csm siano presieduti dai  Presidente della Repubblica. In definitiva non credo si possa parlare di un  assoggettamento dei pm al potere esecutivo. Anzi, se stiamo alla lettera del  progetto di modifica varato dal governo c’è qualcosa di più a garanzia dei  pubblici ministeri. Secondo l’articolo 5, l’ufficio del pm è organizzato  secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e  l’indipendenza». 
              3.  AZIONE PENALE 
  «Il  principio dell’obbligatorietà dell’azione penale viene in realtà integralmente  ribadito, con la postilla “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. A mio modo  di vedere questa modifica non comporta un aumento della dipendenza dei pm  dall’esecutivo, comporta semmai l’onere per il legislatore di individuare i  criteri e le priorità secondo cui operare. Tutte scelte che fino ad oggi erano  demandate alla discrezionalità delle procure. Fatta eccezione per qualche isola  felice, le notizie di reato che passano al vaglio dei magistrati eccedono la  capacità di gestione dei loro uffici. Ciò dà luogo a un’amnistia di fatto per  circa 500mila procedimenti che ogni anno vanno in prescrizione. Nel momento in  cui un pubblico ministero decide a quali fascicoli dare la precedenza è  cosciente di fare un’azione puramente discrezionale, sapendo che un certo  numero di pratiche resterà inevaso. Quindi il principio dell’obbligatorietà  dell’azione penale per ogni notitia criminis, che è sacrosanto, si rivela  puramente teorico. Trovo più corretto che a stabilire i criteri e le priorità circa  i reati da perseguire sia la legge, cioè una procedura più trasparente che  passi attraverso l’esame parlamentare. L’alternativa è che siano i procuratori  a decidere, con circolari e atti di natura regolamentare che però sono  sottratti ai dibattito pubblico».  
       4. POLIZIA GIUDIZIARIA E INDAGINI 
        «È l’unico punto su cui mi sento di esprimere un radicale dissenso.  E la mia contrarietà ruota attorno a una parola che è stata depennata in modo  sicuramente intenzionale. Nell’articolo 109 della Carta è scritto che l’autorità  giudiziaria dispone “direttamente” della polizia giudiziaria. L’articolo 12  della proposta Alfano demanda alla legge le modalità di questa pratica — cosa  del tutto legittima — ma fa sparire la parola “direttamente”, che in questo  caso è sostanziale. La mancanza di questo avverbio è la spia di una volontà di  cambiamento a mio parere non positiva: credo che sia giusto che siano i giudici  e i pubblici ministeri a disporre direttamente della polizia giudiziaria ai fini  delle indagini. Si tratta di corpi che normalmente dipendono da apparati  governativi (Ministero dell’Interno, della Difesa, dell’Economia); nel caso in  cui però siano chiamati a svolgere compiti di attività giudiziaria non possono  che essere alle dipendenze esclusive e dirette dei magistrati. Su questa  revisione ho forti perplessità». 
       5 .INAPPELLABILITÀ DELLE SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO 
        «Si tratta di fatto della costituzionalizzazione della Legge  Pecorella che era stata bocciata dalla Consulta. L’articolo 14 della proposta  Alfano la tramuta ora in norma costituzionale. Trovo che la formulazione sia  abbastanza cauta, perché in realtà non impartisce un divieto assoluto, ma  prevede che i procedimenti conclusi con assoluzione siano appellabili in  determinati casi previsti dalla legge. Ciò postula che in presenza di determinate  ipotesi di reato o di emersione di nuove prove o nuovi elementi la partita  processuale possa essere riaperta. Trovo che sia una norma garantista in tutti  i sensi, sia a tutela dell’imputato che dei magistrati. Certo il principio è  chiaro: se una persona, dopo essere stata incriminata, rinviata a giudizio e  processata viene assolta, ha diritto a non dover vedere impugnata la sentenza e  a proseguire la via crucis verso la Corte d’Appello e poi la Cassazione. In  caso di condanna, è pacifico che invece le garanzie a tutela dell’imputato  rendano legittimo il ricorso agli altri due gradi di giudizio. Il confronto Su questo  cardine della riforma è rimandato a una legge ordinaria, ma posso dire che il  principio in sé mi pare un principio di civiltà». 
       6. RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI 
        «Nel 1987 si celebrò, insieme a quello sul nucleare,  il referendum radicale sulla responsabilità  civile dei magistrati: forse anche sull’onda del Caso Tortora quel quesito  registrò un tasso di partecipazione altissima e passò con un elevatissimo  numero di sì, circa l’80%. Dopo di che, questo referendum è stato totalmente  vanificato dalla legge di attuazione e regolamentazione, a causa di un  atteggiamento di grande debolezza nei confronti dell’associazione dei  magistrati. Con la riforma del governo si tenta di rimettere mano alla  responsabilità diretta dei magistrati, mantenendo però un certo margine di  elasticità. Comprendo le obiezioni: per il timore di incorrere in sanzioni i  giudici e i pm potrebbero usare una mano troppo morbida. Ma è anche vero il contrario,  e cioè che questo deterrente può contribuire a rendere più rigorosi e  scrupolosi i giudizi di primo grado. Per non parlare delle norme che regolano  la limitazione della libertà personale, oggi utilizzata in modo talvolta  eccessivo, improprio e pretestuoso per esercitare pressioni sugli indagati e  gli inquisiti. Anche in questo caso confido in una legge che tenga conto di  tutte le istanze, che sia garantista in senso universale, per i cittadini e per  i magistrati».  
        
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      MARCO BOATO 
         
        BIOGRAFIA 
       
       
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