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Pisa, 16 dicembre 2009
PICCOLA POSTA di Adriano Sofri
IN RICORDO DI CARLA MELAZZINI
di Cesare Moreno, da Il Foglio di mercoledì 16 dicembre 2009

Lunedì è morta, nella sua casa di San Giovanni a Teduccio, Carla Melazzini. Io, come tanti altri che hanno avuto la fortuna di conoscerla, l’ho amata e ammirata. Cedo la mia posta di oggi, ringraziando l’ospitalità di queste pagine, al ricordo che ne ha scritto ieri Cesare Moreno, suo marito e compagno di sempre.

Carla, maestra di strada e nostra maestra se ne è andata. Il suo corpo sta qui vicino a me, freddo dopo una lunga malattia vissuta bene. Abbiamo fatto il nostro ultimo bagno di mare il 28 agosto, al mattino presto perché non poteva prendere il sole forte a causa della chemioterapia, quando la spiaggia è deserta, il cielo pallido, il mare piatto appena increspato da onde minute che si infrangono in silenzio. Bastava questo a farla stare bene, a farle dimenticare preoccupazioni e fatiche, la malattia. Era la stessa calma che da bambina aveva visto nelle acque del Pirlo, un laghetto alpino dell’aspra Valmalenco, dove il cielo si specchiava unendosi alla terra. Aveva voluto che vedessi il Pirlo e con lei avevo girato tutte la valli più interne della Valtellina e scalato alcune vette ghiacciate. Mi aveva portato anche in Val Madre, stretta e selvaggia, dove riteneva di avere le sue vere radici: poche case ormai in rovina arroccate sull’alta sponda del torrente Madrasco, un piccolo cimitero abbandonato in cui Melazzini, e altri assonnati cognomi, erano padroni.

Da questa valle venivano i fieri antenati, quelli che litigavano col vento, quelli che battevano il ferro col maglio idraulico, quelli che non pronunciavano una parola di troppo e spesso neppure quelle essenziali. I ritratti di questi antenati, come quello del nonno ‘maestro casaro’ stanno nella nostra stanza in una nicchia nel muro costruita centinaia di anni prima non si sa per quale motivo, ma diventato il nostro altare agli dei Lari e Penati. Qui c’è anche il ritratto dello zio Bruno, l’alpino che ha eroicamente compiuto la ritirata di Russia senza abbandonare i suoi uomini e sorreggendoli in ogni modo, i ritratti dell’ironico zio Teresio che dalla lontana Argentina continuava a scrivere divertenti storie in dialetto valtellinese, le foto di Giovanna che vive in Giappone e del Giardino di pietra, di Luisa e del suo figlio peruviano Elvis, e quella di una classe di scuola in Perù consistente in un vecchio banco posto in un prato a quattromila metri d’altezza sullo sfondo dei settemila delle Ande. In altri luoghi della casa, sui vetri delle librerie, ci sono altri ritratti: Freud, Nietzsche, Leopardi, Conrad, Dante, Tolstoi. Altri ne avrebbe messi solo se li avesse avuti a portata di mano, ad esempio Dostoevskij, Melvill...

Queste e molte altre erano le sue radici, linee di nutrimento che portano lontano nello spazio, nel tempo, ma soprattutto nella profondità dell’animo, in quelle zone dove la complessità e la complicazione del reale cedono di fronte alle emozioni più semplici, dove ritroviamo antiche paure, dolori sopiti. Carla ha custodito ostinatamente questi spazi da ogni invasione, dalla sua stessa invasione. I suoi scrittori preferiti, gli esploratori degli abissi le sono serviti, a far visita a questi luoghi per interposta persona a parlarne a se stessa, a me suo compagno e ai suoi figli, senza mai nominare esplicitamente il proprio dolore. E ha dovuto fare forza a se stessa per generare figli, per poter esprimere attraverso la carne una speranza e una promessa che l’animo le impediva. Prendere possesso della sua capacità di generazione è stata una fatica durata anni, e prendere possesso pieno della sua femminilità è stato ancora più difficile, è durato fino a pochi anni orsono.

Negli anni dell’università la sua ritrosia era passata in proverbio, ha scoraggiato corteggiatori eccellenti con poche secche parolacce che lasciavano di stucco il pretendente che si aspettava da una persona riservata e diafana nell’aspetto parole miti e gentili. Come ‘capo’ del movimento degli studenti era così determinata che gli avversari non trovarono di meglio che scrivere sui muri gigantesche scritte ironiche sul suo conto. La determinazione ad affermare la propria identità contro ogni tentativo di cucirle indosso un vestito l’ha portata ad essere una e delle poche persone se non l’unica ad abbandonare la Scuola Normale di Pisa di sua volontà e per dichiarata incompatibilità con un modo di fare cultura lontano dal reale. Tutti ammiravano la sua forza, la sua ostinata determinazione ad affermare le cose semplici e lei non lo sopportava, non sopportava che gli altri avessero tanta fiducia in lei, non voleva autorizzare nessuno a farlo eppure lo faceva sistematicamente perché ogni volta dopo quelle che io chiamavo ventate di ottimismo — in realtà fosche previsioni pessimistiche —con poche semplici parole riprendeva il cammino ed era tanto più seguita quanto più aveva dubitato dell’opportunità di avanzare. E poi protestava: ma chi li autorizza ad avere fiducia?

La morte di Carla è come la morte di una pianta millenaria muta ed immobile testimone di avvenimenti che nella sua prospettiva sono effimeri ed insieme nutrita da quanto le accade intorno, dal passare delle stagioni, dal calore del sole, dalla forza della terra.

Quando muore una simile pianta per molto tempo niente cresce nei solchi un tempo occupati da radici vitali, ma col tempo tutto si trasforma in nuova linfa vitale. Io spero per noi che questo accada e che quanti le hanno voluto bene possano continuare a nutrirsi della sua forza.

Cesare.

 

      
   

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