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Trento, 23 aprile 2005
NOI, MENTRE I GERARCHI FUGGIVANO
Il racconto-verità di Sandro Boato: così vivemmo quei giorni gloriosi
dal Trentino del 23 aprile 2005

Il racconto-verità di Sandro Boato che pubblichiamo fa parte del libro di prossima pubblicazione «Giustizia e Libertà. Partito d’Azione a Venezia e dintorni (1922/1946)», curato da Renzo Biondo e Marco Borghi e introdotto dallo storico Mario Isnenghi sul coinvolgimento nella Resistenza di Angelo Boato e Rita De Felip, genitori dei cinque fratelli Boato (tra cui Marco e Sandro, residenti a Trento), e il ruolo silenzioso di tante donne, a partire dalla stessa Rita e da Emma, sorella di Angelo, fino alle giovanissime partigiane del Tesino, Veglia e Ora, che pagarono con la vita la loro scelta coraggiosa. Tra le tante vittime della violenza del regime appare emblematicamente il padre dell’arcivescovo Loris Capovilla, allora bambino, che sarà in seguito segretario di Angelo Roncalli, patriarca a Venezia e poi papa Giovanni XXIII, oggi lucido e attivo 90enne a Sotto il Monte nel Bergamasco.

La liberazione. Un colpo secco di mitra fa saltare la serratura di un’abitazione sulle scale d’un vecchio edificio delle Mercerie dell’Orologio, a due passi da piazza san Marco. E’ la prima arma che i quattro bambini del secondo piano - fratelli, nati poco prima e durante la guerra - intravedono. Soltanto ai due più grandi è permesso scendere al piano di sotto per vedere da vicino Sergio, il cugino partigiano ventenne, da poco rientrato dal Bosco del Cansiglio, nelle Prealpi bellunesi, dopo circa un anno e mezzo vissuto alla macchia. Lo sparo è suo, mentre altri due giovani in tenuta da montagna lo accompagnano. L’appartamento è vuoto; il gerarca locale delle “camicie nere” e la consorte si sono dileguati tempestivamente - avuto sentore delle diffuse diserzioni tra le truppe tedesche e di Salò, palese anticipo della loro resa definitiva.

C’è tensione tuttavia ed i tre giovani, a mo’ d’antidoto, intonano sottovoce «Non ti ricordi quel mese d’aprile», struggente canzone alpina della grande guerra. La corale risuona paradossalmente melanconica, proprio nel momento in cui si sta manifestando la fine dell’oppressione fascista e dell’occupazione nazista. Le scale si animano improvvisamente, come non succedeva da anni. Diversi curiosi si fanno vivi, mentre si affacciano anche gli inquilini dell’ultimo piano, dal cognome slavo che li ha tenuti sul “chi vive” fin dal loro arrivo in Italia - ma in particolare dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Di lì a poco l’insurrezione si estende all’intera città ed infine esplode la gioia, troppo a lungo desiderata e repressa.

Angelo e Rita. Lungo le medesime scale, durante tutto il 1944 e fino alla liberazione, passi sommessi salgono e scendono dall’abitazione dei ragazzini, i cui genitori danno rifugio e assistenza a un ricercato dall’autorità militare d’occupazione germanica e dalla collaborazionista repubblica di Salò - con grande rischio personale e familiare. Mamma Rita prepara ogni notte la cena per il partigiano nascosto nel magazzino a piano-terra, riparato dietro filari di legna da ardere dagli sguardi provenienti dal magazzino contiguo. I due locali sono separati soltanto da un traliccio in legno, che non impedisce al commesso del negozio vicino di asportare il combustibile casereccio, indisturbato e... indisturbabile - a tutela della presenza clandestina. In orario tale da evitare incontri pericolosi, il “prigioniero” sale a ritemprare corpo e spirito, conversando sempre a bassa voce con i generosi ospitanti, per poi tornare nella tana, senza sapere per quanto dovrà rimanervi.

Rita e il marito Angelo sono impegnati col movimento antifascista Giustizia e Libertà, di cui rappresentano anche una base d’appoggio logistica, indispensabile per gli incontri del Partito d’Azione veneziano, in clandestinità. Angelo, spostandosi su una barca da carico, trasporta talvolta armi ed altro materiale necessario alla resistenza in generale e ai Gap cittadini in special modo. In gondola, da rematore provetto, porta al sicuro - dalla Giudecca - Bepi Ciampi, combattente comunista con prole numerosa e pesante taglia sul capo. Angelo e Rita, capaci della più ferrea segretezza, durante la dittatura fascista ed il biennio resistenziale, mantengono successivamente, quasi con pudore, una riservatezza ammirevole su una attività clandestina di servizio che considerano doverosa e naturale, scevra dall’ansia di riconoscimento.

Tra i perché dell’antifascismo. «Spesso si diventava partigiani semplicemente per non combattere l’ultima guerra di Mussolini, e si diventava antifascisti e magari comunisti durante, o addirittura dopo l’esperienza partigiana», scrive lo storico Sergio Luzzatto circa il problema dell’identità politica del movimento resistenziale. Tuttavia non manca l’apporto diretto, la “spiegazione” istruttiva ed eloquente dello stesso apparato fascista - soprattutto mediante gli strumenti del controllo sociale, della polizia segreta e delle squadre volontarie di picchiatori. Si coarta l’insopprimibile esigenza della libera scelta nei piccoli (d’obbligo “figli della lupa”) e si mira all’umiliazione, alla repressione, all’annientamento dei dissenzienti e degli oppositori.

Ad Angelo, in particolare, un gruppetto di “camicie nere” dà una lezione assai efficace, sul ponte di Rialto, qualche anno prima della seconda guerra mondiale. Con pugni e calci, catene e bastoni lo circondano e lo abbattono, lasciandolo a terra tramortito. Poi allontanandosi dicono a voce alta: «No’l xe lu» (non è lui). Uno che invece doveva «essere proprio lui» bersaglio di una vendetta inammissibile o comunque di una bastonatura da non dimenticare, è il padre di un bambino dell’Adriese, nel Padovano, Loris interiorizza la successiva luna agonia paterna, conseguenza diretta della impunita vigliaccata fascista, restando orfano all’età di sei anni, stimolando una precoce vocazione sacerdotale, professando la più radicale scelta per la pace e la non violenza che si salderà – molti anni dopo nella enciclica «Pacem in terris» - con quella del suo “superiore” papa Giovanni XXIII.

Una ulteriore spinta o ragione dell’opzione antifascista nasce dalla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, e dalla persecuzione contro gli ebrei ed altre minoranze, accentuata sotto la repubblica di Salò. Emma, sorella di Angelo, nonostante (o forse grazie a) una menomazione fisica, collabora col viceprefetto di Venezia, di cui è dipendente avvertendo – in una continua, infaticabile staffetta - persone e famiglie, destinate all’arresto e alla deportazione in Germania, di mettersi in salvo, scomparendo immediatamente dalla circolazione. Contribuisce così a salvare centinaia di innocenti.

Le donne e la pace. Quante donne come Rita e come Emma, in privato o pubblicamente, hanno contribuito nel silenzio, prive di ambizione alcuna, con dedizione totale e gratuita, alla resistenza antifascista e antinazista - per puro amore del prossimo, ma anche in segno di riscatto d’una umanità ingiustamente sofferente e perseguitata. A poca distanza dal Bellunese, dove è forte la presenza di formazioni partigiane, si costituisce quale appendice veneta di una di esse il battaglione Gherlenda, arricchendosi di numerosi giovani trentini nell’altopiano del Tesino - come documenta una estesa ricerca di Giuseppe Sittoni. Particolarmente dura è la sopravvivenza dei ribelli in una provincia controllata direttamente dall’autorità nazista di occupazione e indirettamente da un corpo collaborazionista di polizia autoctona (Cst). Sono due ragazze del posto, aggregatesi giovanissime coi familiari alla milizia irregolare, a pagare con la tortura e la vita per il coraggio di una scelta scomoda e l’eroico rifiuto di denunciare i compagni alla macchia. Veglia e Ora - i loro nomi di battaglia, tra le cinque medaglie d’oro femminili della resistenza italiana - giacciono nel camposanto di Castello Tesino.

Non dappertutto tuttavia - e con particolare difficoltà nelle zone di confine - resistenza ed antifascismo sono ricordati con riconoscenza, come momento fondante della Repubblica, insieme prezioso di valori che si irradiano anche aldilà di ombre e contraddizioni. Forse a Venezia la ricorrenza civile del 25 aprile, coincidendo con quella religiosa dell’evangelista Marco, patrono della città, assume un carattere più marcatamente conviviale e gioioso. «El bòcolo derosa» offerto tradizionalmente alle donne-fidanzate e mogli, madri e figlie, sorelle e nonne – evoca un atavico e rinnovato desiderio di pace e di convivenza – che però non coincide con il “quieto vivere” nell’indifferenza e nell’ignoranza. Anche per questo gli ex bambini del 25 aprile 1945, diventati cinque e sparsi tra Venezia, Treviso e Trento, si ritrovano annualmente con tanti familiari, parenti e amici in questa data, cui corrisponde inoltre la prossimità dell’anniversario della morte della madre e il ricordo dei molti che non sono più. Insieme riconoscono così una radice essenziale della crescita personale e dell’impegno civile, vissuto nella seconda metà del Novecento e trasmesso con gioia e fiducia alle nuove generazioni.

      

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