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ALEX LANGER
Un uomo in guerra con se stesso
di Pino Corrias, da La Repubblica, sabato 28 agosto 2004

Un giorno Alex Langer, l’uomo leggero che portava pesi sui ponti della vita, che aveva molte patrie e nessuna patria, che era pacifista per vocazione, pacifico per conversione, riflessivo per cultura, mite di carattere, gentile e sbrigativo nei modi, fragile nelle emozioni, che parlava cinque lingue e perciò si sentiva cinque vite, che aveva visto sanguinare il mondo e respirare la foresta pluviale, che sognava grandi sogni e si svegliava con l’incubo del lager di Omarska, decise di farsi la guerra.

Imbracciò la sua storia, la sua intelligenza, i suoi amori, i suoi treni, i suoi libri, la sua agenda, la sua stanchezza, e ne fece un nodo scorsoio. Scrisse: «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più». Scrisse: «Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi». Scrisse: «Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto». Poi si tolse le scarpe e a piedi nudi si impiccò ai rami di un albicocco. Aveva 49 anni. Era il 3 luglio, anno 1995. Località Pian dei Giullari, Firenze.

Niente più del suicidio spiega una vita, anche se quasi mai una vita spiega il suicidio.

Alex Langer è stato il più impolitico tra i politici di professione. «Con la vocazione alle strade aperte dei francescani camminatori», ha scritto il suo amico Adriano Sofri.

«La più piccola delle minoranze. E perciò solo», ha detto un giorno il suo allievo Reinhold Messner, lo scalatore.

«E che almeno una volta all’anno – racconta lo scrittore Gianfranco Bettin – ti diceva che basta, avrebbe abbandonato tutto, a cominciare dalla politica».

Langer aveva un aspetto buffo, occhiali tondi, sorriso sghembo, denti da castoro, maglioni d’alta montagna, fisico secco. Ma aveva carattere di ferro e resistenza leggendaria al lavoro, agli appuntamenti, a quel continuo intreccio di relazioni che dai quattro punti cardinali del Pianeta, si addensavano nella sua scrittura minuta e illegibile.

Langer è stato militante di Lotta Continua. Consigliere comunale e regionale in Sud Tirolo. Leader dei Verdi. Due volte euro-parlamentare. Ha imparato (dai tempi del suo primo gruppo a Bolzano, Die Bruke, il Ponte) a «passare le linee», «attraversare le frontiere», «saltare i muri». Ha conosciuto (e svelato) l’inganno delle patrie esclusìve. Ha rifiutato il censimento etnico. Ha predicato la convivenza sia nel mondo verdeggiante (e bellissimo) del Tirolo, che nel nero mattatoio jugoslavo.

Ha difeso l’identità ladina, che abita un millimetro di carta geografica, e quella del Tibet, assediato dalla immensa Cina. Si è occupato della fame del mondo, dei genocidi, dei modelli di sviluppo planetari, della deforestazione, della temperatura degli oceani e dei regolamenti di Strasburgo che imparava a memoria, per usarli o scardinarli.

Scriveva di corsa, sui treni, e per giornali microscopici (antologia imperdibile, Il viaggiatore leggero, Sellerio, 1996) e firmava richieste di intervento alla Nato e all’Unione europea, dopo le stragi croate, i massacri di Bosnia.

Ha preso un milione di treni, un milione di appuntamenti, un milione di indirizzi. Ha adottato profughi, finanziato movimenti, devoluto (con una contabilità minuziosa e pubblica) centinaia di milioni alla politica ambientalista, ai pacifisti e agli interventi umanitari. È stato (davvero) un viaggiatore leggero (borsa piccola, suole di gomma, computer) e un testimone pesante. È stato in India, Messico, Amazzonia e nei Balcani. Ha preso su di sé il peso del mondo e ha provato a suddividerlo in tanti appuntamenti giornalieri. Prima di fronteggiare il vuoto.

Alexander Langer veniva da un mondo pieno e benestante. Nasce il 22 febbraio 1946, a (Sterzing), padre medico viennese, ebreo, non praticante, madre farmacista. Famiglia laica, colta, progressista. Scrive: «È sempre complicato spiegare da dove vengo. Allora sei italiano o sei tedesco? Nessuna delle bandiere che svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso, con il tedesco e l’italiano, riesco a farmi capire dalla Danimarca alla Sicilia».

I genitori lo iscrivono (con scandalo di tutti) all’asilo italiano. Poi scuola tedesca, liceo francescano a Bolzano, università a Firenze, laurea in Giurisprudenza, poi Trento e Bonn, per la seconda laurea in Sociologia. In Alto Adige si batte contro le «gabbie etniche» che imprigionano anziché tutelare. Impara l’inglese, il francese, il ladino. Dice: «Parlare più lingue è una condizione pratica e metaforica che ti consente di essere qui e altrove. Si è tante volte uomini quante lingue si conoscono».

A Firenze incontra Valeria, la donna della sua vita. Conosce padre Ernesto Balducci, Giorgio La Pira e Don Milani che già insegna a Barbiana. Traduce in tedesco la Lettera a una professoressa. Asseconda la sua formazione cristiana («sono un cattolico autodidatta») e il suo estremismo giovanile. Si trasferisce a Roma, scrive sul quotidiano Lotta Continua, insegna Lettere e Filosofia in un liceo di periferia che è la sua camera compensazione, il suo confronto quotidiano con la vita vera. Viaggia. Scopre Ivan Illich e Barry Commoner, chiavi dell’ambientalismo, la nonviolenza di Aldo Capitini, gli squatter berlinesi. Ama i sandali e scrivere cartoline.

Due volte, sulla sua strada, incontra il suicidio. La prima a Brunico, anno 1978, funerale del suo amico Norbert C. Kaser, poeta che cantava la sua terra («figlia del tempo/madre dell’uva»), 31 anni, morto di alcol. Scrive: «Il silenzio di quel funerale, la disperazione e l’impotenza di tante persone che ai miei occhi rappresentavano il meglio di questa terra, mi fanno impressione. Norbert è morto di questa impotenza».

La seconda a Berlino, ottobre 1992, suicidio-omicidio di Petra KeIly, nume dei Grünen, e Gert Bastian. Ne scrive, come in una premonizione, con infinita dolcezza: «Forse è troppo arduo essere dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere».

Ma sono le morti collettive a fargli sentire la verità del mondo. È la pancia della balena jugoslava a inghiottirlo e a trascinarlo giù. «Giravamo insieme lungo i confini della Bosnia – racconta Granfranco Bettin – sentendoci soffocati dall’impotenza. Con gli assedi di Sarajevo, di Vukovar, di Srebrenica e i caschi blu immobili, l’Europa assente, il mondo altrove».

Poi la scoperta dei lager della pulizia etnica, delle fosse comuni. Alex che rincorre il tempo, rincorre testimonianze e aiuti, non dorme, scrive, telefona, manda appelli. Lui che sa più di tutti cosa significhi odio etnico. Lui che piange per la strage di Tuzla, 25 maggio 1995, settantuno ragazzi uccisi per strada. Lui pacifista e nonviolento che (con scandalo di tutti) chiede «l’intervento internazionale armato», non più i caschi blu «ostaggi dileggiati», ma soldati per «fermare l’aggressione», «proteggere le vittime», «punire i colpevoli», impedire che «la conquista etnica con la forza delle armi torni a essere legge in Europa».

Fatica, Langer, a scrivere quelle parole che significano evocare la forza, incrinare l’etica. Cadere nella trappola del sangue che chiama sangue. Peso (forse) insopportabile. Polemiche inaspettate da chi sente più vicino. Accuse di tradimento persino dai compagni Verdi, dagli amici. Come se ci fosse ancora qualcosa da dimostrare. Da dire e da disdire sulla propria storia. Sulle parole di Selin Beslagic, sindaco di Tuzla, spedite al Consiglio di Sicurezza Onu e a lui per leggerle a Strasburgo: «Se restate in silenzio, se anche dopo questo non agite con la forza come unico mezzo legale (...) allora senza dubbio alcuno voi eravate e restate dalla parte del male, del buio e del fascismo».

Ha scritto Adriano Sofri: «Alexander deve aver sentito sempre più la predicazione come un fardello non voluto e opprimente». E poi: «Che sia caduto in un punto troppo arduo è degno di pietà e di rispettoۛ».

Tanti anni prima, a Berlino, Langer aveva partecipato alla protesta dei palloncini colorati. Volavano al di là del Muro, ognuno recando un «Trattato personale di pace» scritto su un biglietto, in prima persona: «Io sottoscritto...». Ora quel trattato, tra sé e il mondo, aveva smesso di funzionare. O era volato troppo in alto. Persino il ponte di Mostar era caduto. Per questo Alex Langer, quell’ultimo giorno a Firenze, si era tolto le scarpe.

 

      
Alex Langer

«Ha fatto molto
per tanti, forse troppo:
ha scelto la morte
'per amarezza'»

«È stato il più
impolitico dei politici
di professione.»
quasi un francescano».


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Alex Langer

   

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