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Trento, 17 maggio 2009
Zootecnia di montagna:
Le malghe soffocate dalla burocrazia
di Giuseppe Pallante
da l’Adige di domenica 17 maggio 2009

Presto anche quest'anno si avvicina il periodo dell'alpeggio e come vuole tradizione buona parte dello scarno patrimonio bovino locale si trasferirà tra i monti, sui pascoli d'alta quota. Finita la fase in passato che relegava questa scelta ad una necessità vuoi per scarsità di pascolo in valle, vuoi per eccessivo impegno in periodi destinati ad altre attività più redditizie oggi ci si trova a riproporre la scelta del pascolo alpino sul duplice binario: recupero e difesa del suolo montano e mantenimento di usi e costumi ai fini turistici.

Non è un caso che la stessa amministrazione provinciale anche in passate legislature ha accorpato funzioni quali agricoltura ambiente e turismo in un unico referente.

Da ultimo si è aperto il dibattito, a seguito di dichiarazioni rilasciate dal Governatore, sulla necessità di favorire il consumo dei prodotti locali quale buona pratica in difesa dei piccoli produttori. Non solo: la spendibilità del Trentino passa attraverso quell'immagine di artigianato, difesa dei sapori e delle tradizioni che si vuole quale patrimonio ancora in essere tra le genti e che va tutelato. Così si spiega anche la volontà di turisti - locali e non - di mettersi in marcia ber poi fermarsi a pranzare nei luoghi di ristoro delle malghe. Luogo comune, prassi comune: ricorrenze frequenti su tutto il territorio provinciale e nelle malghe abilitate. Un equilibrio precario (alcune malghe restano distanti dai centri e per tre mesi si resta isolati), con più rischi per gli animali (incidenti, maggiore pericolo di infezioni mammarie, problemi podalici) sempre meno motivato (chi ti darà le bovine al pascolo quando oramai bisogna "mungere" tutto l'anno con un preciso regime alimentare) e gratificante (l'offerta agrituristica si sta riducendo e la gente che una volta andava via con una pezza di formaggio oggi va bene se porta via con sé due etti...).

Insomma tra bovine che necessitano di una serie di attenzioni tutto l'anno, scarsità di latte e disagio quotidiano, la vita del malgaro diventa sempre meno proponibile. A fronte di queste premesse bisogna dare atto dell'impegno del pubblico nel recupero e nelle migliorie che annualmente mettono le persone in condizioni di vivere meglio e di meglio gestire il tutto. I recuperi effettuati e i soldi spesi confermano quanto è stato fatto sinora. La malga, tuttavia, fa fatica ad affermarsi, e gli operatori ad avere quel giusto riconoscimento perché gli impegni e gli adempimenti risultano eccessivi. Alla gestione del pascolo e al ricovero degli animali si sono andati nel tempo a sommarsi impegni e vincoli che di norma si fa fatica già ad accettare a valle e che in montagna sembrano un vero controsenso.

Si potrebbe cominciare con l'enunciare la gestione fiscale e sulla marea di bolle e ricevute, registrazioni e fatture, come un qualunque esercente di città con commercialista a carico. E si potrebbe continuare con gli aspetti normativi igienici e sanitari sia nei confronti della produzione del latte sia per ciò che riguarda i locali di trasformazione e stagionatura. La norma è forse più di ogni altro ostacolo ciò svilisce il ruolo del malgaro riducendolo ad un qualunque altro esercente urbano con la variante di produrre lì, sul monte, tra una tempesta improvvisa, ed un ospite occasionale di passaggio. Ricostruire in primis la dignità e riconoscere il ruolo di quanti lavorano in montagna, in malga, non può ridursi ad una vetrofania buona per le fattorie didattiche in pianura, né ad un contributo economico di cui sono sicuro farebbero ben volentieri a meno tutti se gli si lasciasse la libertà; la libertà non fuori dalle regole, come alcuni potrebbero malignamente pensare, ma nel rispetto delle «loro» regole, regole di vita, perché non si vive in montagna senza regole, e non si produce formaggio o si «governano» i bovini in loro assenza.
Il mio non vuole essere giudizio di contenuto (un caseificio che lavora bene farà sempre un ottimo formaggio!) ma di merito. Una legge siffatta non potrà mai essere compresa e condivisa perché fuori dalla norma, fuori falla prassi della montagna. Oggi il braccio di ferro tra prassi nella tradizione e prassi nella legge non è comprensibile perché l'uomo di malga non ne vede alcun vantaggio, per sé, per ciò che produce, per gli animali che gli sono stati affidati. Difendere una prassi nelle produzioni non vuol dire porsi fuori legge ma semplicemente ottenere quel riconoscimento di unicità in sé che il prodotto consegue e che immagino anche il consumatore condivide.

Potrebbe forse bastare la dizione «prodotto di malga» perché il consumatore venga messo davanti a informazioni aggiuntive che da una parte ne certificano il valore del prodotto e dall'altra lo «coresponsabilizzano» all'atto dell'acquisto. Perché non stilare questo patto a vantaggio di tutti? Una «Carta dei Servizi» condivisa dal produttore che ne esplicita metodo e contenuto e riconosciuta dal consumatore che dimostra di valutare in modo responsabile il prodotto acquistato. Un valore aggiunto non frutto di marketing imprenditoriale ma di acquisita consapevolezza di intendi: la montagna può e deve vivere, la condivisione di saperi è la sua ancora.

Giuseppe Pallante
Centro Studi Interdisciplinari di Zooantropologia

 

      
   

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