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Bolzano, 16 gennaio 2001
LA PRIGIONE DI ADRIANO SOFRI
di Edi Rabini

Il sole appena pallido non riesce a riscaldare il freddo di tramontana, in questo giorno di metà gennaio a Pisa, ma fa risplendere i colori delle semplice case che proteggono le strade del centro storico. La città sembra esibire un'aria dimessa, come a voler nascondere prudentemente i suoi tesori, ben consapevole di quanto poi paga chi ha mostrato al mondo una potenza superiore ai suoi mezzi.

Quando mi avvio verso il carcere, che rinchiude innocente Adriano Sofri ormai da quattro anni, il cielo è coperto di nuvole. Già da lontano scorgo la torre famosa incombere minacciosa sul vecchio edificio, trattenuta da mille cavi solidali decisi a contrastare il suo destino.

Ho cercato tra le pareti spesse una breccia che mi consentisse di entrare.

Mi sono subito imbattuto in un primo muro, il muro delle buone intenzioni. Ecco, il carcere come luogo di espiazione dei corpi e di redenzione delle menti. Mente e corpo, considerati anche da una certa psichiatria come parti separate dell'essere umano. Si capisce allora perché a Sofri è concessa la libertà di far quotidianamente evadere pensieri (alcuni suoi pensieri) che vengono ospitati da alcuni giornali in Italia e all'estero. Ma il suo corpo no: deve restare ben richiuso, assieme a quello di migliaia di altre comparse mutilate dei sensi, a beneficio del palcoscenico elettorale su cui va in scena la farsa quotidiana della "fermezza". Per carità, che non si parli più di amnistie e indulti ora che è finalmente passato il Giubileo e si possono dimenticare i ripetuti appelli del Papa.

Copre un lato intero l'imponente muro della vendetta. Cosa pretende quest'uomo, a capo di una rivolta incompiuta che ha cambiato l'Italia nella stagione delle grandi utopie? E come si è permesso di lasciare l'esilio volontario per presentarsi, con la cricca socialista e quel tale Leonardo Sciascia, il vigliacco, a mettere in dubbio la capacità e la volontà dello Stato di salvare l'Aldo Moro condannato a morte dalle brigate rosse?

Si innalza sul lato Sud del carcere il muro della verosimiglianza. A venti o trent'anni di distanza. il tragico omicidio del commissario Calabresi può ben diventare un pilastro simbolico per condannare, con Sofri, Pietrostefani e Bombressi, un'intera generazione che si affacciava sul mercato dei mestieri ereditari. Sembrava una peculiarità tutta italiana questa vicenda, fino a quando, dentro il riposizionamento fazioso della CDU malata di astinenza al potere, non è cominciata la criminalizzazione in Germania del ministro degli esteri Joschka Fischer.

A nulla è servita la tenacia con cui Adriano Sofri ha cercato dal primo giorno di riportare i numerosi processi nei limiti del fatto imputato, per evitare che fossero le parole dette e scritte in quel lontano contesto, a diventare di fatto la prova decisiva a suo carico. Ed invece l'uccisione del commissario Calabresi è stata attribuita a Sofri, con la complicità di un interessato pentito, solo perché Lotta Continua usava allora parole plausibilmente all'altezza di quel omicidio.
L'ha costruito da sè il quarto lato della sua prigione, Adriano Sofri. E' il muro della responsabilità. C'è stato un periodo, della nostra storia generazionale, in cui le parole erano state ridotte a puro strumento di lotta politica. Pensavamo di essere insieme l'operaio oppresso nelle fabbriche, il Davide vietnamita contro il Golia americano, il contadino calabrese espulso dalla sua terra. E nel nome di troppo grandi ingiustizie ci sembrava poca cosa mettere in gioco la nostra e l'altrui vita. Adriano Sofri ci ha presto insegnato che la "parola" è di per sé l'essenza del vivere. Già dalla fine degli anni '80, ben prima quindi dell'inizio della persecuzione giudiziaria, aveva deciso di farsi per questo carico della responsabilità di tutte le parole dette e delle azioni che ne potevano essere scaturite; delle parole sue e dei molti ai quali si vorrebbe perfino negare la nobiltà di essere stati e di essere rimasti amici.

Così è stata ieri per me impenetrabile la prigione in cui vive Adriano Sofri. Non so se in quell'ammasso di ferro e di mattoni, sormontati da una torre sempre più pendente, riesce a sopravvivere qualche fiore. Ho pensato allora di spedirgli una "Rosa di Gerico", quel piccolo rovo rinsecchito che si aggira nel deserto in balia del vento e fiorisce miracolosamente ogni volta che ha la fortuna di trovare una pozza d'acqua su cui posarsi e da cui riprendere vita.

 

 

      
   

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