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Trento, 14 giugno 2005
LA RESISTENZA NEL TESINO. UNA PAGINA DA RICORDARE
di Odilia Zotta, pubblicato su l'Adige di venerdì 17 giugno 2005

E’ uscito in questi giorni il libro di Giuseppe Sittoni “Uomini e fatti del ‘Gherlenda’, la Resistenza nella Valsugana orientale e nel Bellunese”. Si tratta di un lavoro di ricerca durato anni e fondato su materiali di archivio e colloqui coi protagonisti: quelli che sono rimasti naturalmente, perché alcuni di coloro che si sono salvati, dopo sessanta anni dai fatti, non ci sono più.

Castello Tesino, dove sono nata, è il paese che per primo, in Trentino, è stato liberato il 25 aprile 1945, dopo aver pagato un prezzo di sangue altissimo: un numero elevato di morti, sequestro di tutti i capifamiglia con minaccia di uccisione a scopo intimidatorio, perquisizione a tappeto dei fienili e baiti fuori paese, dove vivevano molte famiglie, case e masi incendiati. Un’ordinanza tedesca del gennaio 1944 prevedeva, per chi rifiutava l’inserimento obbligatorio nel Corpo di Sicurezza Trentino sulla base di elenchi fatti dai Comuni, la pena di morte e l’arresto o altre pene previste dal codice militare di guerra germanico per i familiari. Così pure ogni azione partigiana veniva punita, colpendo l’autore o i suoi familiari.

Si può ben capire come, alla fine della guerra, le sofferenze erano state tali che tutti volevano dimenticare: partigiani, popolazione poco informata ed inerme, delatori; tutti guardarono avanti e una coltre di silenzio isolò, come per far sparire, l’anno di guerra partigiana (agosto 1944, aprile 1945), determinandone la rimozione dalla memoria collettiva. Ma un lutto non elaborato è una sofferenza che ritorna, è una rabbia che non è stata sfogata, è un fuoco che rùmega dentro la cenere, pronto a divampare improvvisamente.

Cosa è successo a Castello Tesino durante la resistenza? Il paese, a distanza di tanti anni, sembra si vergogni di avere le due più giovani donne medaglia d’oro: Ora e Veglia. Trento ha loro dedicato due strade, Borgo Valsugana la scuola media e Castello Tesino? Come comunità neanche ricorda i fratelli Gino e Ivo Mascarello, giovanissimi eroi ammazzati per aver nascosto Valasco, partigiano di Lamon, sfuggito alle torture e alla morte dopo l’arresto e braccato dai tedeschi.

Il libro di Sittoni ha il grande merito di proporre testimonianze e documenti; non discute opinioni, tesi precostituite o consolidate, non si sa quanto basate sulla verità dei fatti o quanto invece costruite per coprire chi e che cosa.

Dopo sessanta anni abbiamo diritto di conoscere la verità. I partigiani erano “banditi” (come li definisce il Commissario Prefetto De Bertolini nella lettera del 27 giugno 1944, inviata al Comandante della Gendarmeria di Trento) o “patrioti” (appellativo usato dal parroco di Castello Tesino, don Silvio Cristofolini, nella relazione fatta al CLN-Comitato di Liberazione Nazionale)? Credo che il nodo stia tutto qui. Se era giusto, non soltanto opportuno, considerare il Trentino come parte dell’impero hitleriano dopo l’8 settembre 1943, con tutto quello che sappiamo oggi della natura violenta e razzista di quella dittatura, allora i partigiani possiamo considerarli “banditi”, da isolare e condannare. Ma se ricordiamo che il Trentino era italiano e che quella tedesca è stata l’occupazione di un’area strategica, perché quasi tutti i convogli dei deportati seguivano la linea del Brennero, allora chi ha lottato contro questa occupazione può a buon diritto essere definito “patriota” e la sua comunità dovrebbe esserne orgogliosa.

Leggo sul libro che Veglia, dopo essere stata torturata e ammazzata, è stata buttata nuda sotto lo stradone che collega Pieve a Castello Tesino. Recuperato il corpo, lo si è voluto rivestire col costume tesino, come omaggio del paese ed emblema del coraggio e capacità di sacrificio delle sue donne. A questo dimenticato momento di commozione e di riconoscenza dovremmo tornare, grazie anche all’impegno di Giuseppe Sittoni.

Inoltre, finché siamo in tempo e qualcuno dei protagonisti ancora in vita, sarebbe auspicabile che la comunità esprimesse riconoscenza a questi fratelli che -quando i più, sicuramente paralizzati dalla paura, seguivano le faccende quotidiane o i pochi che potevano, scappavano a nascondersi- hanno scelto di stare con l’Italia e di andare in montagna per combattere e la comunità stessa chiedesse loro perdono per non aver saputo e voluto riconoscere prima di oggi, con altri superstiti ancora in vita, il loro sacrificio.

Odilia Zotta

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