Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, maggio 2008 “Il '68 è morto. Viva il '68!”: è questo il titolo, auto-ironico e un po' dissacrante, che scelsi nel 1978 (primo decennale del 1968, ma anche anno terribile del sequestro, prima, e dell'assassinio, poi, di Aldo Moro da parte delle “Brigate rosse”) per pubblicare una mia raccolta di scritti non solo sul movimento del '68, ma anche su ciò che l'aveva preceduto e seguito. Era un modo, già allora (trent'anni fa!), di far capire al lettore come fosse sbagliata non solo qualunque forma di demonizzazione acritica di quel movimento, ma anche al tempo stesso qualunque forma di mitizzazione altrettanto acritica (del tipo: “Formidabili quegli anni”...). A differenza del 1977, anno in cui si manifestò un movimento collettivo, prevalentemente giovanile, in una dimensione esclusivamente italiana, quello che ancor oggi va sotto il nome di “'68” (ma riguardante un processo storico che in realtà copre più anni, prima e anche dopo quella data fatidica), fu un fenomeno di portata internazionale, che anzi per molti aspetti si configurò in una dimensione mondiale, sia pure con caratteristiche molto diverse fra un paese e l'altro, tra un continente e l'altro. E' questo il motivo per cui si può parlare di un fenomeno “epocale” (senza che questa costatazione comporti necessariamente un giudizio di valore) e – sotto il profilo storiografico, anche comparativo – si può ormai considerare “il '68” una vera e propria data “periodizzante”. Ogni nuova generazione – a modo suo e con modalità diverse a seconda delle fasi storiche –, quando si affaccia sulla scena nell'età della giovinezza, tende a rimettere in discussione, più o meno radicalmente, la società che si trova di fronte. Se questo non avvenisse “fisiologicamente”, ci troveremmo in una situazione di stagnazione sociale e di assenza di qualunque dinamica di cambiamento. Ma il fatto storico assolutamente singolare (e con tutta probabilità irripetibile) si è verificato per la straordinaria coincidenza temporale con cui “negli anni attorno al '68” (per usare una espressione di Joseph Ratzinger, che ha vissuto anche lui il suo '68, e ne ha riportato una esperienza che l'ha segnato profondamente) tutte le giovani generazioni, prevalentemente studentesche (almeno nella prima fase), in quasi tutti i paese europei, ma anche in molti altri paesi del mondo, hanno dato vita, pressoché contemporaneamente a un movimento collettivo di straordinario impatto sulla società e sulle istituzioni (non solo politiche). Considerato con distacco (anche per chi ne ha fatto direttamente parte) a quarant'anni di distanza, il movimento del '68, anche sul piano internazionale, appare interpretabile come un fortissimo fenomeno di modernizzazione sociale, culturale e politica, all'insegna soprattutto (almeno nella fase iniziale) di una dimensione “anti-autoritaria”. L'anti-autoritarismo è stato sicuramente l'aspetto che più ha accomunato le nuove generazioni che, contemporaneamente e in tanti paesi diversi (con diversi sistemi politici e istituzionali), hanno dato vita a quel movimento collettivo. Nel passaggio dalla società agricola alla società industriale di massa, il movimento del '68 ha messo in discussione, quasi sempre a partire prima di tutto dal terreno universitario, una dopo l'altra le strutture e le istituzioni: dalla famiglia alla scuola, dalla fabbrica ai quartieri cittadini, dall'informazione alla repressione, dai rapporti sessuali a quelli generazionali, dalle carceri ai manicomi, dalle forme della politica fino anche alle forme della religione (non a caso, si è manifestata con forza e diffusione anche una “contestazione ecclesiale”, negli anni del dopo-Concilio e del cosiddetto “dissenso cattolico”). Nell'arco di alcuni mesi, la dialettica innescata dal movimento studentesco tra libertà e potere si è riverberata dall'università a tutti gli ambiti sociali e istituzionali, anche in contesti socio-politici profondamente diversi (c'è stato un '68 anche nei paesi a regime autoritario, sia di destra che di sinistra, sia in Europa che in altri continenti). Da questo punto di vista, si potrebbe dire che il movimento del '68 – usando il linguaggio di oggi riferito ai processi storici di allora – è stato il primo grande fenomeno di “globalizzazione” e di mondializzazione che si sia manifestato dopo la seconda guerra mondiale: un fenomeno culturale e politico (ma anche di costume e di stili di vita) verificatosi ben prima che prevalesse la globalizzazione di carattere economico-finanziario. Se i prodromi di questo movimento collettivo antiautoritario si ebbero – ancor prima del '68 stesso – negli USA, e in particolare nella California, della metà degli anni '60 (con la “rivolta di Berkeley” e il suo “Free speech movement”), e se il fenomeno più eclatante si manifestò in Francia, soprattutto a Parigi, con l'esplosione del movimento di maggio (stroncato però rapidamente e duramente dalla forte reazione del presidente De Gaulle), l'Italia ebbe una sua peculiarità nel contesto europeo e visse una sorta di “'68 prolungato”. I primi segni e sintomi si ebbero a metà degli anni '60, con le prime occupazioni universitarie (soprattutto nelle Facoltà di Architettura e nella Facoltà di Sociologia a Trento), e continuarono in modo più esteso nel '67 con le manifestazioni e iniziative contro la guerra in Vietnam. E il movimento studentesco del '68 in Italia si saldò poi profondamente col ciclo di lotte operaie che caratterizzò l'intero 1969 (soprattutto il cosiddetto “autunno caldo” dei rinnovi contrattuali, fortemente influenzato dalla lotta antiautoritaria degli studenti, che si estese largamente alle fabbriche). Detto in estrema sintesi, il “'68 lungo” italiano si articolò nel '67 come “l'anno del Vietnam”, nel '68 come “l'anno degli studenti” e poi nel '69 come “l'anno degli operai”. Una vera e propria “rottura” si determinò con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, da cui ebbe inizio la strategia della tensione e delle stragi e che segnò – come è stato detto – la “perdita dell'innocenza” di una intera generazione, che si trovò per la prima volta in modo così brutale e tragico a fare i conti con la violenza politica. Se, come ho già ricordato, il movimento del '68 può essere interpretato come un gigantesco processo di modernizzazione, non altrettanto può dirsi del linguaggio ideologico con cui, dopo la prima fase aurorale dello “stato nascente” (per usare la efficace espressione weberiana, utilizzata da Francesco Alberoni per analizzare sociologicamente i movimenti collettivi), cominciò ad esprimersi ed auto-interpretarsi. Come altre volte è successo nel passato, un movimento che rappresentava – nelle sue espressioni più autentiche e significative – il massimo di “anticipazione del futuro”, si ritrovò ad adottare, da un certo momento in poi, il linguaggio ideologico del marxismo e anche del leninismo, in tutte le loro varianti ortodosse ed eterodosse, ufficiali ed eretiche. Invece che guardare avanti, al futuro da costruire dopo aver rotto le incrostazioni burocratiche e autoritarie del passato, il movimento del '68 – esauritasi la fase “aurorale”, più spontanea e innovativa – si trovò a girare la testa all'indietro, riproducendo al proprio interno il dibattito ideologico che veniva dall'eredità del passato. E se in questo passato, anche recente, c'era ad esempio la ricca eredità teorica e di impegno politico (ma assai minoritaria) di un uomo di grande valore come Raniero Panzieri, c'erano tuttavia anche tutte le ortodossie ed eresie marxiste e leniniste (e “marxiste-leniniste”), che contribuirono a dilacerare e depotenziare un movimento altrimenti straordinariamente ricco di potenzialità trasformatrici ed innovatrici (fino alla massima degenerazione, in una parte del Movimento Studentesco di Milano, di adottare come principale riferimento teorico la figura di Stalin, al punto da ripubblicarne addirittura le opere per sciagurata iniziativa editoriale autonoma). Se la dimensione ideologica ha sicuramente costituito la parte più caduca e meno originale del movimento del '68 dopo la sua prima fase, più originale e creativa, “allo stato nascente”, gli effetti più positivi si sono invece verificati non solo nella saldatura col ciclo di lotte operaie e sindacali del 1969, ma anche e particolarmente in una sorta di “onda lunga”, che si è riverberata su molti aspetti istituzionali e sociali. Se non ci fosse stato il movimento del '68 e il nuovo “biennio rosso” 1968-69, difficilmente si sarebbero verificate una lunga serie di riforme e conquiste che hanno attraversato tutti gli anni '70 con una sorta di “lunga marcia attraverso le istituzioni” (per usare l'efficace e originale espressione adottata in Germania-RFG da Rudi Dutschke). Basti pensare, in rapida sintesi, allo Statuto dei diritti dei lavoratori, alla legge prima e al referendum confermativo poi sul divorzio, all'introduzione del diritto di voto per i diciottenni, al riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare, al nuovo diritto di famiglia, poi alla legge sull'interruzione volontaria di gravidanza (per far uscire l'aborto dalla clandestinità) e infine alla soppressione del cosi detto “delitto d'onore”, alla riforma penitenziaria, all'abolizione dei manicomi come “istituzioni totali”, alla nascita di Magistratura Democratica (con caratteristiche diverse dal passato), di Medicina Democratica (basti ricordare la straordinaria figura di Giulio Maccacaro) e di Psichiatria Democratica (anche qui basti ricordare personalità eccezionali come Franco Basaglia e Giovanni Jervis), alla formazione del movimento dei “Giornalisti democratici”, alla lotta per il Sindacato di Polizia (di cui fu animatore Franco Fedeli), alla battaglia per la rappresentanza democratica nelle Forze Armate. Dunque, l'intero decennio successivo al '68, anche se quel movimento progressivamente esaurì la sua presenza autonoma, tuttavia fu caratterizzato dal moltiplicarsi di quella originaria spinta antiautoritaria, di libertà e giustizia, di solidarietà e partecipazione, che attraversò tutte le principali istituzioni italiane, compresi gli organi di informazione e i cosiddetti “corpi separati dello Stato”. Nel quarantennale del '68, sono apparsi una serie di volumi – spesso meramente auto-apologetici da parte di protagonisti italiani e anche stranieri – che ben poco di nuovo hanno aggiunto a quanto già si conosceva (e si conosceva con più realismo e minore enfasi apologetica, a volte ai limiti del patetico). Più che di rievocazioni “nostalgiche” e auto-celebrative di singoli protagonisti, più che le demonizzazioni dissacranti che hanno il sapore di vendette ideologiche postume e francamente patetiche, ci sarebbe davvero bisogno – a quarant'anni di distanza, “sine ira ac studio” – di un paziente lavoro di documentazione, di ricostruzione storica puntuale e di capacità analitica anche nella dimensione territoriale. Marco Boato
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